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Rischio flop per l’accordo sul petrolio

Pubblicato il 29/12/2016 alle ore 10:11:17

di Maurizio Sgroi - www.thewalkingdebt.org

 

L’evento dell’autunno sul mercato delle commodity, ossia l’accordo di Vienna del 30 novembre, potrebbe rivelarsi un piccolo grande flop, almeno secondo l’analisi pubblicata dalla Bce nel suo ultimo bollettino economico. Il perché è presto detto. Innanzitutto c’è il rischio concreto che i paesi firmatari non rispettino i patti, sia quelli Opec, che dovrebbero farsi carico di 1,2 milioni di tagli da gennaio a giugno 2017, e poi i paesi non Opec, che hanno accosentito a tagliare a loro volta 600 mila barili entro l’anno. Se questi accordi verranno rispettati “l’offerta mondiale subirà un calo dell’1,9 per cento, rispetto alla crescita del 2,6 per cento registrata nel periodo 2015-2016”.
 

Un notevole cambiamento della strategia, principalmente voluta dall’Arabia Saudita, dal novembre 2014 per difendere la propria quota di mercato. All’epoca, lo stato saudita si oppose all’iniziativa proposta dai produttori più piccoli di limitare la produzione per prevenire una futura flessione del prezzo del petrolio. “Di conseguenza – sottolinea la Bce – dall’inizio del 2015, l’offerta complessiva dei paesi Opec è aumentata di 2,7 milioni di barili al giorno, principalmente provenienti da Iraq, Arabia Saudita e poi Iran; tuttavia i tassi di produzione di alcuni paesi membri dell’organizzazione sono scesi in ragione di corsi petroliferi bassi”.
 

La politica saudita, l’abbiamo visto, ha finito col mettere in crisi tutti i paesi esportatori, che probabilmente per la prima volta si sono trovati a condividere una strategia di contenimento della produzione per ridare fiato alle quotazioni diminuendo l’offerta. Ma, come abbiamo detto, bisognerà vedere innanzitutto se i firmatari rispetteranno i patti. E poi occorre tener conto dell’evoluzione microeconomica del settore petrolifero, che ha visto scendere i costi di produzione, tenendo anche conto del peso specifico del settore shale. E poi c’è la questione delle scorte massicce, che potrebbero funzionare come ammortizzatore di shock sulle quotazioni.
 

Ma è il terzo fattore quello più denso di incognite. La Bce fa riferimento alla “possibile reazione endogena dell’offerta dei paesi non OPEC” che “potrebbe limitare la reazione dei corsi petroliferi”. “In particolare – sottolinea – le modifiche strutturali introdotte dalla rivoluzione shale negli Stati Uniti hanno ridotto i costi di estrazione del petrolio da scisto, portandoli a livelli inferiori rispetto a quelli di altri produttori di petrolio non convenzionale, un cambiamento che avrà probabili ripercussioni sull’equilibrio del prezzo del greggio”. In sostanza la produzione americana, specie ai nuovi prezzi del greggio raggiunti dopo l’accordo di Vienna – ormai il petrolio quota intorno ai 50 dollari – può incoraggiare i produttori americani, che hanno ricavi marginali maggiori dei produttori tradizionali, a incrementare la produzione e così vanificare il taglio di produzione Opec.
 

Ma sono le stime di lungo periodo che sono scoraggianti. Se vale l’ipotesi che in quest’orizzonte a determinare il prezzo saranno i costi marginali, come insegna la teoria economica, allora è meglio ricordare che “il mercato del petrolio è oggi più competitivo di due anni fa, poiché la sostanziale ristrutturazione del settore petrolifero negli Stati Uniti e l’evoluzione della tecnologia hanno ridotto ulteriormente il prezzo break-even per pozzo shale di oltre un quinto negli ultimi tre anni”. Insomma, non c’è da aspettarsi grandi rialzi. La quota 60 dollari, da questo punto di vista, una volta raggiunta potrebbe rimanere stabile a lungo. Salvo imprevisti.



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